S&V FOCUS | Eutanasia e suicidio assistito. Scienza & Vita in Audizione al Senato | 17 settembre 2024 Gli Approfondimenti di Scienza & Vita | Di Francesca Piergentili

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Il dibattito politico, in Italia, continua ad alimentarsi attorno al tema del fine vita. Le recenti sentenze della Corte Costituzionale (a cominciare dalla n. 242 del 2019) in materia di suicidio assistito hanno ulteriormente acceso il confronto tra posizioni normative diverse, che lasciano trapelare sullo sfondo visioni antropologiche di riferimento alquanto differenti tra loro, talvolta non scevre da storture e assolutizzazioni di stampo ideologico. I beni in gioco sono molteplici, dal valore della vita umana in quanto tale, alla consistenza della sua dignità concreta nelle diverse situazioni cliniche, al dovere di reciproca solidarietà della comunità sociale verso i suoi membri, al significato profondo della “relazione di cura”, tanto per citarne solo alcuni. Ma al di là di ogni discussione, una cosa è certa, almeno sul piano etico: ogni persona che sperimenta dolore e sofferenza a causa della malattia o della condizione clinica, ha diritto a trovare risposte sociali concrete e efficaci, che la aiutino a vivere in maniera “degna” la propria condizione di vita, per essere effettivamente “libera” di poter operare le proprie scelte in materia di cura. Una regolazione normativa adeguata, dunque, deve garantire questa fruizione, pur nel rispetto di ogni posizione e della libertà di ciascuno.

Ma qual è, ad oggi, lo stato dell’arte legislativo sul tema? Dopo i ripetuti solleciti della Consulta, gli organi parlamentari preposti hanno ripreso la discussione su alcuni disegni di legge su eutanasia e suicidio assistito, già depositati – sia alla Camera che al Senato – in precedenza.

In particolare, In Senato sono assegnati cinque disegni di legge in materia di suicidio assistito alle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali ed è iniziato un ciclo di audizioni di Associazioni ed esperti. Anche Scienza & Vita nei giorni scorsi è stata chiamata a offrire il proprio intervento in audizione.

Download QUI in testo integrale dell’Audizione di S&V   

Ma sinteticamente cosa è successo in questi ultimi anni in tema di fine vita nel nostro Paese?

  1. Il rifiuto delle cure: dalla legge n. 219 del 2017 alla sentenza n. 242 del 2019.

In tutto il mondo gli sviluppi scientifici e tecnologici in medicina hanno consentito il prolungamento della vita di tanti pazienti nella malattia inguaribile. Oggi si può, in un certo senso, “controllare” la morte della persona, soprattutto nei casi in cui la vita è mantenuta artificialmente, in condizioni estremamente compromesse, che non consentono la ripresa delle funzioni vitali, (come nel caso delle tecniche di rianimazione). Sono sorte, pertanto, complesse problematiche sul piano etico e giuridico legate al tema del rifiuto delle cure salva-vita.

Nel campo giuridico, in Italia il diritto al rifiuto del trattamento medico necessario per la sopravvivenza, fino agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, non era riconosciuto per il valore riconosciuto all’indisponibilità della vita umana: l’intervento medico trovava giustificazione attraverso lo stato di necessità. Negli anni successivi, attraverso la lettura in combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., tale quadro di riferimento iniziò a mutare non solo per il rispetto del principio del consenso informato all’atto medico ma anche per il richiamo alla libertà personale e alla non ingerenza non giustificata sul (e nel) corpo umano.

La giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il principio del consenso informato sempre più quale fondamento di liceità del trattamento medico, fungendo da “sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute” (sent. 438/2008).

Il legislatore ha cristallizzato tale principio con la legge n. 219 del 2017, recante Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, dopo un acceso e lungo dibattito in sede parlamentare, che ha seguito le vicende che hanno condotto alla morte di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby. L’art.1 della citata legge consente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, anche qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza. Ai fini della legge sono considerati trattamenti sanitari anche la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale. L’art. 2 prevede, poi, che “il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore…” (comma 1); mentre “nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati” (comma 2). Il bilanciamento operato dal legislatore tra tutela della vita del paziente e autodeterminazione personale si è espresso nel rifiuto di qualsiasi accanimento terapeutico, valorizzando la proporzionalità delle cure, ma non consentendo pratiche di abbandono del paziente, né di morte procurata. Far rientrare sempre tra i trattamenti sanitari (rinunciabili)  l’idratazione artificiale e la nutrizione artificiale è stato il ‘grimaldello’ attraverso il quale puntare per andare oltre.

Un punto di svolta in tal senso è stata la sentenza n. 242 del 2019, nel noto caso che ha riguardato la morte in Svizzera di Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo). La Corte nel giudizio di legittimità costituzionale sul reato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), ha individuato una circoscritta area di non punibilità, corrispondente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. La Corte ha espresso l’esigenza che sia però “sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010”, sul presupposto che “l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, per la Corte, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente: a tal fine l’attuazione della legge n. 38 del 2010 è indicata come una priorità assoluta per le politiche sanitarie.

Nella pronuncia si ribadisce che preminente nel nostro ordinamento il diritto alla vita: dall’art. 2 Cost. discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e non il diritto alla morte. La declaratoria di illegittimità costituzionale riguarderebbe, pertanto, casi eccezionali: “si limita”, cioè, “a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”. L’eccezionalità delle condizioni previste dalla sentenza comporterebbe una stretta interpretazione delle stesse. La ratio dell’art. 580 c. p. è “scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”.

Per la prima volta nella sentenza però, per i casi eccezionalmente considerati, viene meno la differenza tra “lasciare morire” (con l’accompagnamento alla morte) e il “procurare la morte” del paziente, in nome del principio di eguaglianza: “se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri” attraverso l’autosomministrazione di un farmaco letale.

La Corte, in questo specifico ambito, “in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore”, affida a strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale la verifica delle condizioni e delle relative modalità di esecuzione, “le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze” – indicando a tal fine quelle previste dall’art. 1 e 2 della legge 219 – e richiedendo, altresì, un parere del Comitato etico territorialmente competente.

Nella sentenza si auspica che la materia formi oggetto di compiuta disciplina da parte del Parlamento, riconoscendo che “una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali”. La disciplina potrebbe essere eventualmente introdotta in vario modo: la Corte indica la possibilità di una eventuale modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 c.p., o anche la modifica della legge n. 219 del 2017 o, ancora, attraverso una disciplina ad hoc per le vicende pregresse. In ogni caso la Corte afferma che i delicati bilanciamenti indicati restano affidati, in linea di principio, al Parlamento.

  1. La sentenza n. 50 del 2022 sulla richiesta di referendum sull’omicidio del consenziente.

La Corte costituzionale è intervenuta nuovamente in materia di fine vita con la sentenza n. 50 del 2022, dichiarando l’inammissibilità della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) “per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito”. Attraverso il “ritaglio” che sarebbe stato operato sul testo si sarebbe voluto affermare il principio della disponibilità della vita umana in presenza del consenso dell’interessato. Nella sentenza si ribadisce, invece, che “quando viene in rilievo il bene della vita umana…la libertà di autodeterminazione non può mai incondizionatamente prevalere sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”. L’art. 579 c.p. insieme all’art. 580 c.p. rappresentano una “cintura di protezione” per i soggetti più vulnerabili.

  1. Le proposte di legge regionale e i primi casi in Italia

Nei mesi successivi, sotto la stessa spinta volta a far pressione per arrivare al riconoscimento dell’eutanasia nell’ordinamento italiano, in diverse Regioni è stata presentata una proposta di legge in tema di suicidio assistito. È, però, evidente, come affermato anche dall’Avvocatura di Stato e da alcuni Consigli regionali, l’incompetenza del legislatore regionale in una materia estremamente delicata, che incide su aspetti essenziali della integrità della persona e della vita stessa, “suscettibile di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile su base di scelte discrezionali” (sent. n. 242). La materia sarebbe riservata, anche per ragioni imperative di uguaglianza sul territorio nazionale, alla competenza esclusiva del Parlamento nazionale, riguardando l’ordinamento penale e l’ordinamento civile (ex art. 117, comma secondo, lettera l), Cost.).

Nel frattempo, si è assistito ai primi casi di assistenza al suicidio in Italia. È il caso di “Mario”, di “Gloria”, di “Anna”. Per il suicidio assistito di Anna, la cui sofferenza psicologica era divenuta insopportabile, ha fornito assistenza e il farmaco letale il Servizio Sanitario Nazionale.

  1. La sentenza n. 135 del 2024 sulla condizione di essere dipendenti da trattamenti di sostegno vitale per l’assistenza al suicidio.

Un nuovo giudizio di legittimità costituzionale è stato sollevato dal Tribunale di Firenze sull’art. 580 c.p. come modificato dalla sentenza n 242 “nella parte in cui richiede che la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona ‘tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale’”. Per il giudice rimettente la dignità umana è un parametro soggettivo, coincidente con la qualità della vita: il paziente nella malattia inguaribile e irreversibile dovrebbe poter decidere di “farla finita” attraverso il suicidio assistito, ponendo fine a una vita percepita come non più degna. In tale contesto sarebbe “crudele” il requisito dell’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.

Con la sentenza n. 135 del 2024 la Corte costituzionale ha deciso la questione ritenendola non fondata: il requisito svolge un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con la sentenza n. 242 del 2019. Ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia crea, per la Corte, “rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.”. I rischi non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona, ma riguardano anche la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva, “si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte”.

Si riconosce, pertanto, il dovere della Repubblica di assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze, e il dovere di assicurare loro ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale, psicologica ed esistenziale. Dal riconoscimento del diritto alla vita scaturisce, infatti, il corrispondente dovere dell’ordinamento di assicurarne la tutela attraverso la legge.

Il Giudice delle leggi rifiuta anche l’interpretazione esclusivamente soggettiva della dignità umana: dal punto di vista dell’ordinamento, infatti, “ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga”.

Per quanto riguarda la condizione della dipendenza dal trattamento di sostegno vitale, è considerata necessaria ma si allarga la sua interpretazione: il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività, incluse quelle procedure che sono compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale ma che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers”. Per rientrare nella condizione però la loro omissione o interruzione dovrebbe determinare la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

La Corte conclude con due indicazioni: l’auspicio che il legislatore intervenga ad assicurare concreta attuazione ai principi costituzionali, ferma restando la possibilità per lo stesso legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto di tali principi; e “lo stringente appello” affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni indicati nella sentenza n. 242, “una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010”. Occorre infatti in ogni caso assicurare che “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza”: tale esigenza comporta la “previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari”.

  1. Considerazioni conclusive

Di fronte alla sofferenza del paziente fragile, affetto da una malattia irreversibile e inguaribile, oggi si confrontano due diverse alternative, che rappresentano due diverse visioni del mondo, della malattia, della sofferenza, della vita e dell’uomo stesso: una che mette al centro l’uomo, nella complessità della sua esistenza che comprende anche relazioni significative, e la solidarietà come senso ultimo del vivere sociale;  l’altra che tenta in ogni modo di sovvertire i valori di riferimento, che considera la vita umana non un valore in sé ma solo a certe condizioni e tenta di renderla disponibile e rinunciabile, soprattutto quando è fragile e sofferente, e che, in nome dell’individualismo e dell’efficientismo,  punta in ogni ambito ad affermare l’eutanasia nel nostro ordinamento. Non a caso alcuni disegni di legge assegnati alle Commissioni del Senato parlano esplicitamente di eutanasia (anche nella forma di assistenza medica alla morte).

Si dimentica, però, che la morte per suicidio assistito ed eutanasia non è mai un fatto privato: presuppone sempre l’intervento di altri per il concreto esercizio, determinando lo stravolgimento della solidarietà sociale, e pone una forte pressione a livello psicologico e culturale nei confronti di tutti i pazienti fragili e delle famiglie.

Come affermato in audizione da Scienza & Vita non può non rilevarsi che “una certa enfasi unilaterale sui c.d. diritti individuali – la cui implementazione, nei casi di cui ci occupiamo, avviene “a costo zero” e, anzi, comportando un risparmio economico – finisca per distogliere l’attenzione, anche politica, proprio rispetto alla centralità dei “diritti sociali”, dalla cui garanzia dipende il contrasto effettivo della sofferenza, fisica e morale, delle persone deboli e, per ampia parte, lo stesso non insorgere, nel malato, dell’intento di abbreviare attivamente il corso della sua vita”.

 

 

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