Uomini o donne come vi piace
Quali bagni deve utilizzare Vladimir Luxuria a Montecitorio? Il problema c’è, nonostante i generici appelli alla tolleranza, e l’unico modo per risolverlo sarebbe quello di cancellare la polarità maschio femmina, rinunciando alla separazione delle toilettes, o aprire a una terza denominazione: ma quale? Il problema era stato affrontato, dal punto di vista teorico, proprio pochi giorni prima, presso la biblioteca del Senato, alla presentazione del libro dell’americana Dale O’Leary Maschi o femmine? La guerra del genere (Rubettino). Il volume – uscito quasi dieci anni fa negli Stati Uniti dove ha suscitato grande interesse – racconta come il problema del genere sia stato al centro della battaglia politica nelle conferenze ONU del Cairo e di Pechino, a cui la O’Leary ha partecipato personalmente. Il testo, per molti versi un po’ frettoloso e superficiale, ha però il merito di raccontare una storia poco conosciuta nel nostro paese, cioè come – per esprimersi con le parole, citate dall’autrice, dell’Istituto di ricerca per l’avanzamento delle donne (INSTRAW) – “adottare una prospettiva di genere significa (…) distinguere tra quello che è naturale e biologico da quello che è costruito socialmente e culturalmente, e nel processo rinegoziare tra il naturale – e la sua relativa inflessibilità – e il sociale – e la sua relativa modificabilità”. In sostanza, significa negare che le diversità fra donne e uomini siano naturali, e sostenere invece che sono costruite culturalmente, e quindi possono essere modificate a seconda del desiderio individuale. L’adozione di una “prospettiva di genere” è stata la linea ideologica adottata con forza da alcune delle principali agenzie dell’ONU e dalle ONG che si occupano di controllo demografico, con il sostegno della maggior parte delle femministe dei paesi occidentali, ma con l’opposizione dei molti gruppi nati a difesa della maternità e della famiglia.
Da qui il termine gender (che è più elegante e neutro di “sesso”) non solo è entrato nel nostro linguaggio, ma è usato addirittura nella denominazione di un filone di ricerca accademica – i Gender Studies – spesso però nell’inconsapevolezza del suo rivoluzionario significato ideologico-culturale.
La tesi che la differenza sessuale non abbia basi biologiche, ma sia determinata solamente dal tipo di educazione ricevuta, è stata sostenuta dal medico americano Money, della Johns Hopkins University, che nel 1972 ha sostenuto di averne la prova scientifica. La sua teoria è stata accolta con entusiasmo dal femminismo radicale americano, anche se è stata smentita pochi anni più tardi dal drammatico suicidio del “caso clinico” sul quale Money aveva realizzato la sperimentazione decisiva. Nella teoria del gender, infatti, le femministe hanno trovato una soluzione facile a una loro necessità: quella di spiegare l’origine della posizione subordinata della donna nella società, e dunque di individuare i modi per correggerla. L’idea che i confini fra uomini e donne non siano naturali, ma costruiti da una cultura “patriarcale”, ha suggerito infatti lo sviluppo di una fitta attività di decostruzione delle categorie culturali, considerata essenziale per poter pensare il mondo dal punto di vista delle donne. Come aveva scritto profeticamente Simone de Beauvoir, “donne si diventa” non si nasce. Di qui il successo di Money, nonostante le smentite alle sue tesi e il fatto che la ricerca scientifica abbia confermato come la differenza maschio/femmina sia presente già nel DNA di ogni essere umano.
La nuova categoria ha avuto anche applicazioni positive sul piano scientifico, come nella ricerca storica, dove in sostanza è servita a rendere consapevoli gli storici della costruzione sociale delle identità sessuali e a ricordare che esse si formano in una dimensione di relazione, aprendo così quella che era nata come storia delle donne a una attenzione anche ai ruoli maschili. Ma la sua vera ragion d’essere, come ha ben spiegato la O’Leary, è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. Anche le istituzioni culturali si sono aperte a questa nuova possibilità: lo dimostrano due libri appena usciti, Altri femminismi (Manifestolibri), curato dalla Società Italiana delle storiche, e Omosapiens. Studi e ricerche sugli orientamenti sessuali (Carocci). Il concetto di gender rappresenta in questi studi il primo passo per sviluppare in modo più ampio lo sganciamento dell’identità sessuale dalla realtà biologica, tanto che, come si sostiene, il gender ha il suo logico sviluppo nell’approccio queer, cioè nella prospettiva dell’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della vita. Si tratta dunque di una ennesima versione delle utopie egualitarie che da oltre due secoli percorrono il panorama ideologico dell’occidente.
(Corriere della Sera, 5/11/2006)