SPECIALE DI SCIENZA & VITA
Tutte le cifre del Quarto incontro nazionale delle Associazioni locali
TRENT’ANNI DOPO
DALL’ABORTO ALL’EUGENETICA
di Emanuela Vinai
“Dare i numeri”, nel senso proprio della locuzione, è diventata ormai una specialità di Scienza & Vita. Dal referendum del 2005 (74% di astensioni) fino ad arrivare alla raccolta firme per la moratoria sulla distruzione di embrioni umani a scopo di ricerca (26062 numero rotondo e palindromo), attraversando il Family day e il Fisco a misura di famiglia, l’associazione si è sempre distinta per la capacità di coniugare la matematica con l’antropologia.
La sessione primaverile dei tradizionali incontri con le Associazioni locali, è stata quindi l’occasione per scoprire che Scienza & Vita, questa volta, ha fatto “mille”.
Cifra importante, somma di molti fattori che è interessante andare a scomporre, snocciolando i numeri in crescendo, come una tabellina dalle regole un po’ eccentriche.
Due: sono i giorni del convegno. Intensi e partecipati, hanno visto concretizzarsi e fondersi lo spazio della formazione e quello delle esperienze da condividere.
Tre: le “Buone pratiche” raccontate da altrettante associazioni locali, che dimostrano come, ognuno nel suo specifico, si muova per divulgare temi e valori.
Cinque: i parlamentari che hanno partecipato al convegno, portando la testimonianza di un impegno per la tutela della vita che viene da lontano e che prescinde dall’appartenenza a schieramenti diversi. Paola Binetti (Pd), Enzo Carra (Pd), Domenico Di Virgilio (Pdl) e Luisa Santolini (Udc), seduti nell’emiciclo che ricordava Montecitorio, hanno ascoltato, posto domande, favorito riflessioni, sempre con competenza e semplicità. Carlo Casini, europarlamentare (Udc), impegnato in altra sede, non ha mancato di far pervenire un messaggio scritto di saluto e di vicinanza.
Sei: i relatori istituzionali che si sono avvicendati nell’esposizione.
Francesco D’Agostino ha affascinato la platea con una lettura inconsueta e originale dell’aborto come problema antropologico, sottolineando come questo non abbia trovato nella storia un riconoscimento nei miti e nelle leggende popolari.
Assuntina Morresi, con il racconto dell’anomalia della situazione italiana nel sistema europeo, ha dato il via ad un appassionato scambio di opinioni.
Nicoletta Tiliacos ha ricordato la grave disparità di informazione che affligge i media, soprattutto relativamente all’attuazione della legge 194 e all’uso strumentale della diagnosi prenatale.
Marina Casini e Renzo Puccetti si sono invece alternati in una staffetta, dinamica nei tempi e rigorosa nei contenuti, sulla legittimità dell’obiezione di coscienza e le criticità cui sono sottoposti coloro che vi ricorrono.
Federico Pontiggia, critico cinematografico, ha svelato le facili suggestioni e i sottili condizionamenti che si nascondono in un’ora e mezzo di film scanzonato.
Otto: i rappresentanti del Nazionale, dai presidenti Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dallapiccola al portavoce, dai consiglieri Daniela Notarfonso Cefaloni e Edoardo Patriarca alla segreteria organizzativa. Ciascuno ha contribuito e si è adoperato per il proprio ruolo e le proprie competenze per far sì che tutto si svolgesse nel migliore dei modi.
Quindici: le regioni italiane rappresentate, da Nord a Sud, dalle piccole alle grandi. Un’ideale “via francigena” che tocca città e paesi, dal tacco alla punta dello Stivale.
Ventisette: i professionisti presenti, tra operatori sanitari e giuristi, che non hanno mancato di far sentire la loro voce nell’identificare un dettaglio mai irrilevante o nel chiedere un approfondimento su una problematica specifica.
Quarantatrè: le associazioni intervenute, che hanno dimostrato l’unità degli intenti pur nella diversità della formazione.
Settanta: i delegati che hanno percorso l’Italia con ogni mezzo e veicolo per arrivare ad un appuntamento che è più di una convention semestrale, ma è il ritrovarsi di amici schietti e credibili.
Centosettanta: le slide proiettate per rendere agevoli anche i passaggi più tecnici e per sintetizzare il fluire delle narrazioni.
Seicentotrenta: i minuti di registrazione dei lavori, che equivalgono a più di nove ore di interventi, relazioni, dibattiti. Una maratona che ha coinvolto i fedelissimi e gli esordienti, cercando di portare tutti al traguardo.
Ed infine, Dieci: i bambini nati in questi anni e che abbiamo potuto censire. Figli, nipoti e pronipoti di tutti coloro che, nella nostra porzione di popolo della vita, non smettono di testimoniare la propria speranza.
Superati gli orrori dei totalitarismi, un altro rischio incombe
SOLO UNO SGUARDO PURIFICATO
CI SALVERA’ DAL “NUOVO” EUGENISMO
di Maria Luisa Di Pietro
“30 anni di Legge 194. Dall’aborto all’eugenetica”: è questo il tema che l’Associazione Scienza & vita ha scelto per il IV Incontro nazionale delle Associazioni locali, le cui relazioni sono riportate in modo sintetico in questo numero della newsletter.
Perché la scelta di questo tema? Le ragioni sono essenzialmente due.
Da una parte i fatti: il 2,9% degli aborti (ovvero 3.685 su un totale di 127.080) – secondo l’ultima relazione del Ministero della Salute – sono stati effettuati dopo i 90 giorni. La principale causa di aborto, in questa epoca, è la presenza di malformazioni o di anomalie nel nascituro. Anche perché l’eventuale patologia – anche ostetrica – a carico della madre è oramai controllabile e nulla osta che si possa curarla, pur rispettando la vita del figlio.
Nella sua nota ipocrisia, la Legge 194 non dice che tra le cause di giustificazione dell’aborto c’è anche l’accertata presenza di malformazioni o di anomalie nel nascituro, riconducendo il tutto (si veda il comma b dell’art. 6) alla presenza di un pericolo grave “per la salute fisica o psichica della donna”. Non è noto, tra l’altro, quanti aborti in tal senso vengono consumati nei primi 90 giorni, periodo in cui è sufficiente la sola previsione di malformazioni o di anomalie nel nascituro e di danno “serio” per la madre.
Un’ipocrisia che ritroviamo anche – e questa è la seconda ragione della scelta del tema – nella mentalità corrente. Ciò che viene, oggi, fortemente rifiutato è il bambino non ancora nato e “malato” (ma anche il nato con gravi disabilità o con malattia inguaribile o non autosufficiente): la scelta se fare vivere o meno questo figlio viene fatta ricadere interamente sulla madre.
Al dramma dell’aborto, che investe sia ogni bambino concepito ma non ancora nato per volontà di altri, sia la madre, si aggiunge il dramma di una società che non è neanche in grado di accogliere e sostenere le condizioni di fragilità. Anche estreme, come quelle determinate dall’innocenza di un bambino non ancora nato e dall’eventuale sovrapporsi di una malformazione o di un’anomalia.
Si può affermare che ci troviamo di fronte a vere e proprie pratiche eugenetiche?
Sì, se “eugenismo” significa eliminare i geni malati dalla popolazione attraverso l’eliminazione di chi porta i geni malati (e il pensiero va anche alla diagnostica pre-impianto dopo fecondazione in vitro o ICSI). Sì, se non fa “eugenismo” il numero di esseri umani soppressi contemporaneamente: con l’aborto se ne colpisce – di solito – uno alla volta. Sì, se è indifferente chi ne manifesta l’intenzione: lo Stato, i medici, la madre, la famiglia anche d’origine.
Dove affonda le radici quello che possiamo definire il “nuovo” eugenismo? Sono state, giustamente, richiamate vecchie ideologie che hanno reso “mito” la purezza della razza e che hanno trovato nell’eliminazione dei malati di mente, degli affetti da patologie genetiche, dei malformati, di chi apparteneva ad altre “razze” e degli omosessuali, lo strumento di “purificazione”.
Il terreno in cui affonda le radici il “nuovo” eugenismo”, invece, è la totale perdita del senso dell’uomo. Da qui l’offuscamento dello “sguardo” sull’altro, la ricerca dell’efficienza a tutti costi, l’inaridimento del cuore di chi preferisce non guardare, l’assenza di un sorriso per quei genitori che hanno deciso di accogliere – nonostante tutto – quel loro figlio malato. E così, una mamma o due genitori impauriti dai test genetici e ecografici che gli restituiscono un’immagine di figlio “reale” che non corrisponde al figlio “sognato”, si chiedono cosa fare e avvertono su di sé la forte pressione di una società che quel figlio lo ha già rifiutato.
Ed allora, riflettere sul “nuovo” eugenismo significa interrogarsi – innanzitutto – sullo sguardo che ciascuno pone su ogni essere umano, sano o malato che sia. Perché l’accoglienza dell’altro parte proprio dal riconoscimento della peculiarità di ogni essere umano, che ne è anche la sua dignità. Se non si aiuta a modificare lo “sguardo” – e questo è il compito dell’Associazione Scienza & vita – il “nuovo” eugenismo non potrà che trovare un terreno sempre più favorevole in cui “fiorire”, di volta in volta, nei modi più inattesi.
Lettura innovativa di una pratica “tollerata”, ma riprovata socialmente
L’ABORTO COME PROBLEMA ANTROPOLOGICO.
PERCHE’ NON HA ELABORAZIONE SIMBOLICA?
di Francesco D’Agostino
1. Nel contesto di questo discorso, intenderò con antropologia lo studio delle dinamiche antropo-geniche, quelle ad opera delle quali si attiva la dinamica dell’ominizzazione, attraverso le quali, cioè, l’uomo giunge a riconoscersi caratterizzato da una specificità umana, e non semplicemente biologica: esempi di dinamiche antropologiche sono quelli dell’elaborazione del linguaggio, della costruzione di vincoli familiari e sotto un certo profilo anche del processo di alfabetizzazione. Uno degli effetti, anzi forse il principale effetto, non intenzionale, ma rilevante, dei pluri-decennali dibattiti sulla legalizzazione dell’aborto volontario, che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento, è stato proprio quello di attivare una importante riflessione antropologica in materia. Questa riflessione era stata in precedenza pressoché inesistente e tuttora viene spesso e indebitamente confusa o ridotta ad una riflessione di carattere morale.
2. Cosa è in grado di dirci l’antropologia in tema di aborto volontario? Poche cose, ma essenziali:
2.1. l’aborto è una pratica universalmente conosciuta;
2.2. l’aborto è sempre stato ampiamente tollerato, ma nello stesso tempo è sempre stato oggetto di deplorazione e riprovazione sociale;
2.3. non è mai esistita un’adeguata elaborazione simbolica dell’aborto;
2.4. non è possibile ricondurre l’aborto – come esperienza universale, ma priva di espressione simbolica, a dinamiche di repressione sociale o sessuale, perché incidendo sulla generazione esso incide sul presupposto stesso di ogni vincolo sociale e di ogni regolamentazione sociale della sessualità.
3. Questi quattro punti sono strettamente interconnessi. Per farli passare dallo status di mere rilevazioni fattuali a quello di cifre ermeneutiche si deve riflettere sul significato antropologico che possiede il terzo di essi, quello cioè che sottolinea la totale assenza nell’esperienza antropologica di una elaborazione simbolica dell’aborto volontario (nei miti, nelle favole e nelle leggende, nei canti popolari, nelle rappresentazioni iconografiche). Da questo dato emerge con chiarezza come la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza è sempre stata evidentemente ritenuta non sanabile da parte e nell’inconscio collettivo.
3.1. Ne è prova il fatto che nemmeno per il fenomeno che più potrebbe essere apparentato all’aborto, quello cioè dell’infanticidio, si rileva un simile vuoto di elaborazione simbolica: l’uccisione del neonato è sempre stata in genere simbolicamente trasfigurata nel suo abbandono (prassi in cui l’intenzione infanticida tende a produrre come effetto non intenzionale la salvezza del neonato, quindi un’ affermazione del diritto alla vita e le conseguenze dinamiche dell’agnizione, emotivamente potenti e simbolicamente analogabile a quelle di una nuova nascita). Peraltro nella tradizione mitica e favolistica l’infanticidio (o comunque l’abbandono del neonato) non vengono in genere rappresentati come esigenze femminili, ma come crudeli pretese maschili, alle quali a volte la donna è costretta a soggiacere, ma alle quali in alcuni casi riesce anche astutamente ad opporsi: Crono uccide tutti i suoi figli, ma Rea finalmente lo inganna e riesce così a salvare il piccolo Zeus, perché faccia vendetta del padre.
4. Nella postmodernità l’aborto volontario ha inaspettatamente conosciuto un processo di legalizzazione rapida e sincronica pressoché in tutti i paesi del mondo. Di questo processo di legalizzazione non ci interessano qui i risvolti giuridico-penali, giuridico-sanitari e giuridico-amministrativi, ma l’effetto di legittimazione antropologica (più che sociale) della pratica. Questo effetto non appare, almeno nel breve periodo, reversibile e comunque sarebbe ingenuo pensare che la sua eventuale reversibilità possa dipendere da una rinnovata penalizzazione delle pratiche abortive, anche a causa della particolarissima debolezza simbolica del diritto penale nell’esperienza contemporanea. Che però sia indispensabile invertire le dinamiche di legittimazione antropologica dell’aborto è una delle tesi che si vogliono sostenere in queste pagine. Da questa inversione dipende, almeno in gran parte, la salvaguardia della differenza sessuale e di conseguenza della stessa identità femminile, come cercherò di meglio motivare più avanti.
5. Le cause politiche e culturali del processo postmoderno di legittimazione antropologica dell’aborto sono ancora ampiamente discusse. Dai sociologi esse comunque vengono generalmente ricondotte ad una svolta storica epocale, quella della crisi irreversibile del modello familiare patriarcale, caratterizzato da una forte divisione nei ruoli endofamiliari (ruolo sociale per l’uomo, ruolo domestico per la donna). Tale crisi avrebbe svuotato di senso o almeno incrinato spettacolarmente la valenza della funzione generativa della donna e reso di conseguenza disponibile la maternità.
6. Se è vero che la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza non è di principio sanabile, diviene chiaro perché la legalizzazione dell’aborto volontario abbia richiesto vistose elaborazioni ideologiche, che hanno rispettato le dinamiche proprie di tutte le ideologie, in quanto forme di pensiero finalizzate a nascondere le contraddizioni. L’aborto legalizzato è stato giustificato in chiave medica (come aborto terapeutico), in chiave sociologica (come unica modalità per contrastarne l’intollerabile e altrimenti insuperabile clandestinità), in chiave ontologica (negando carattere propriamente personale e ad-dirittura umano alla vita prenatale), in chiave economica (a seguito di situazioni di invincibile indigenza familiare), in chiave giuridica (qualificando la scelta abortiva come scelta di privacy socialmente insindacabile), in chiave contraccettiva (come tollerabile variante di altre più complesse o più costose forme di contraccezione), in chiave politica (come diritto umano fondamentale delle donne e simbolo della loro sofferta liberazione nei confronti del potere maschile) e last but not least in chiave demografica. Non sarebbe compiuta questa rassegna, però, se si tacesse di alcune opinioni sorte nell’ambito del pensiero femminile più radicale, quello che rifiuta di fornire alcuna giustificazione dell’aborto, perché lo qualifica nel contesto dell’esperienza femminile alla stregua di un momento di libertà e di pienezza, una forma di compiuta auto-affermazione della donna, per la quale non sarebbe inadeguata l’espressione, molto amata da un vituperato filosofo tedesco, di Selbstbehauptung.
7. Nemmeno un simile lavoro ideologico, che ha ormai alcuni decenni alle spalle, è però riuscito a far uscire l’aborto dalla zona d’ombra che lo caratterizza. Si potrebbe giungere a sostenere che la molteplicità delle argomentazioni volte a giustificarlo e la loro reciproca difficile compatibilità siano un segno evidente del fatto che la questione aborto non ha trovato nella legalizzazione la sua risoluzione: contrariamente a quanto imprudentemente affermato da molti, la legalizzazione dell’aborto non è riuscita ad imporsi nella coscienza collettiva come una conquista di civiltà (come imprudentemente affermava Italo Calvino verso la fine degli anni Settanta), ma continua ad apparire alla stregua di una ferita destinata a restare piaga aperta. Si osservi inoltre che il continuo progresso delle conoscenze in ordine alla vita prenatale – e perfino della vita embrionale – ha fatto uscire la figura del nascituro dal cono d’ombra nella quale esso nel passato veniva a trovarsi obiettivamente collocato. La difficoltà a coniugare la legalizzazione dell’aborto con il riconoscimento delle spettanze della vita prenatale (prime tra tutte quelle di non essere indebitamente danneggiata da atto ingiusto altrui e di non essere manipolata) è un ulteriore segno insanabile di contraddizione.
8. Il vero effetto antropologico della legalizzazione dell’aborto è stato quello di imporre al sesso femminile la riformulazione del senso che possiede la sua specifica generatività biologica. L’uomo (non diversamente dalla donna) può scegliere la sterilità volontaria, ma non può stroncare la vita prenatale, se non attraverso un atto di violenza su di un altro corpo (sul corpo fem-minile). La donna, con l’aborto volontario, può stroncare la vita prenatale operando sul suo corpo. Legalizzando la maternità come scelta insindacabile (dato che la gravidanza può essere, per volontà della donna, liberamente interrotta) la postmodernità induce la donna a pensare la generatività non più come possibilità, bensì come potere. Quest’assunzione, che potrebbe in astratto essere pensata come una conquista del sesso femminile, possiede invece ambiguità e ambivalenze profonde.
9. Anche se mancano studi adeguati sull’apporto propriamente femminile alla generazione, non come processo biologico, ma come processo antropogenico, non c’è dubbio comunque – e qui ci viene in aiuto quanto comunemente conosciamo in ordine alla straordinaria elaborazione simbolica della gravidanza presente fin dalle culture più antiche – che la donna è sempre stata ritenuta antropologicamente la custode del vivente, colei a cui è affidato (da Dio stesso, dalla natura o se si vuole dall’evoluzione: nel contesto del nostro discorso questo punto non è rilevante) il formarsi biologico degli esseri umani, cioè (per usare stilemi sociologici) di quelle identità singolari che sono chiamate ad acquisire, dopo la nascita, ruoli sociali. Di qui la proiezione, che tanto ha colpito l’immaginazione di Bachofen, di un’aura pressoché sacrale al principio femminile, presente in tutte le culture (ed espressa spesso in forme poeticamente insuperabili, come nella Beatrice dantesca o nell’esaltazione dell’eterno femminino, dell’ Ewigweibliche, in cui si condensa la conclusione del Faust goethiano). Di qui il tratto più perspicuo che fonda la differenza tra i sessi. La freddezza, che la più tipica dimensione simbolica del principio maschile, può certo prevalere, grazie all’uso della forza, sul calore che contraddistingue il principio femminile, ma non si dimentichi che il calore è il principio alla lunga prevalente, perché simbolo di vita (come dimostra il fatto che è il primo segno che caratterizza un corpo vivente), laddove il freddo è simbolo di morte (il freddo del cadavere).
10. In una prospettiva nella quale la maternità diviene una scelta, garantita dalla legittimità delle pratiche abortive, si determinano tre effetti, quali che siano le motivazioni che sottostanno a tale scelta. Poco rileva quale sia il grado attuale o futuro della loro operatività sociale, dato che ci muoviamo in prospettiva non sociologica, ma antropologica. Quel che qui rileva è come venga alterato dalla legalizzazione dell’aborto il processo antropogenico.
10.1. Il primo, sotto gli occhi di tutti, è quello dello progressivo svuotamento prima simbolico poi biologico (e infine anche sociale) del ruolo maschile nel processo della generazione: è coerente che una volta che sia stato negato all’uomo il diritto di sindacare il rifiuto della maternità da parte della donna, gli venga poi negato il diritto di cooperare, come padre, ai processi generativi, se non per concessione della donna stessa. La solitudine della donna, che ne consegue, chiede ancora di essere adeguatamente studiata: indubbiamente, comunque, essa comporta una inedita problematizzazione del senso stesso di un generare non condiviso nella responsabilità e nel valore. L’orgoglio procreativo della donna si trasforma nell’irrilevanza simbolica della procreatività, che in non rari casi arriva ad essere esplicitamente e pubblicamente rifiutata, come non valore.
10.2. Il secondo effetto è quello eugenetico. L’eugenetica ha sempre rappresentato una tentazione per il potere politico, come forma totalizzante di esperienza relazionale collettiva, incapace di riconoscere autonomia e spettanze all’individualità dei singoli. Storicamente questa tentazione (alla quale hanno ceduto perfino alcuni tra i massimi spiriti dell’ umanità, come ad es. Platone) ha trovato limiti pressoché insuperabili nelle difficoltà emotive e pragmatiche connesse alla sua effettiva realizzazione. Legittimando l’aborto eugenetico, ed anzi favorendolo -trasfigurandolo indebitamente come terapeutico-, la politica scarica sulle donne la responsabilità di un controllo, storicamente inedito, sulle future generazioni. L’antropogenesi si trasforma, per dir così, in antropocritica; la donna, chiamata dalla natura ad assumersi il ruolo di dare la vita, è indotta essa stessa ad attribuirsi il ruolo di chi pretende di essere giudice della qualità della vita.
10.3. Più rilevante il terzo effetto conseguente alla perdita simbolica del ruolo generativo della donna stessa. Una volta che la volontà femminile sia stata riconosciuta arbitra delle facoltà generative, ne consegue inevitabilmente il diritto per quella stessa volontà di modulare la generatività secondo le ormai innumerevoli, diverse forme rese possibili e praticabili dalle tecniche di procreazione assistita (tecniche che oggi trovano le forme più estreme nella surrogazione di maternità, ma che potranno ben presto estendersi alla gestazione artificiale). Sappiamo come la definitiva rimozione della gravidanza appaia, ad alcune teoriche del pensiero femminile, l’unico obiettivo che si dovrebbero seriamente proporre tutti coloro che mirano alla compiuta equiparazione tra i sessi (è stata anche elaborata l’ipotesi, funzional-mente equivalente ma troppo macchinosa, di promuovere ricerche biomediche per rendere praticabile la gestazione maschile). La completa rimozione della gravidanza e, nelle ipotesi più estreme, la completa rimozione dell’accoppiamento sessuale nelle sue modalità generative garantirebbero paradossalmente la completa cancellazione del fenomeno aborto. Ma, nello stesso tempo, comporterebbero il definitivo superamento della stessa identità femminile come identità sessuata. Da luogo predisposto dalla natura alla generazione, il corpo femminile dovrebbe divenire luogo predisposto semplicemente ad accogliere manifestazio-ni ludiche ed affettive di altre individualità (sessuate non solo secondo le categorie tradizionali del maschile e del femminile, ma secondo qualsiasi altra possibilità). Alle donne resterebbe solo la possibilità di affermare la loro identità nella prospettiva del gender, una possi-bilità come minimo ambigua, perché –diversamente da quanto avverrebbe a carico degli uomini- si realizzerebbe solo togliendo alle donne la dimensione specifica e non surrogabile della loro sessualità.
11. In modo estremamente sintetico: letta come fenomeno di rilevanza antropologica, la legittimazione dell’aborto, finalizzata a rimuovere la contraddizione intrinseca alla scelta abortiva, produce come effetto l’erosione interna della stessa identità femminile.
Il paradosso: minimo di natalità, di contraccezione e di aborti
LA VERA ANOMALIA ITALIANA
E’ LA TENUTA DELLA FAMIGLIA
di Assuntina Morresi
Parlare di aborto in Italia significa affrontare un’anomalia rispetto a quanto accade negli altri paesi occidentali, dove la legalizzazione è arrivata più o meno negli stessi anni. C’è da dire innanzitutto che in questi trent’anni trascorsi dall’approvazione della 194 gli aborti sono diminuiti sia in valore assoluto, sia che si considerino i tassi (cioè il numero di aborti per 1000 donne considerate in età fertile) che i rapporti di abortività (cioè il numero di aborti per 1000 nati). Ma è anche importante notare che l’introduzione della legge non ha modificato l’andamento della natalità in Italia, che andava calando velocemente fin dalla metà degli anni Sessanta.
I dati Istat mostrano una continuità nel calo delle nascite: se gli aborti effettuati legalmente fossero stati tutti dovuti all’approvazione della 194, avremmo dovuto verificare la presenza di un “gradino”, un calo aggiuntivo del numero dei nati in corrispondenza almeno del 1978-79. L’Istat mostra, invece, addirittura un rallentamento della denatalità, a partire dai primi anni Ottanta.
La prima osservazione quindi è che la legalizzazione dell’aborto è avvenuta in un ambiente in cui il ricorso all’aborto era già diffuso e legittimato, come d’altra parte hanno dimostrato i risultati del referendum del 1981, quando solo il 32% degli italiani era contrario alla 194. La legittimazione dell’aborto ha preceduto e prodotto la sua legalizzazione, non viceversa.
Studi pubblicati nel 1976 su Medicina e Morale – la rivista dell’Università Cattolica – a cura del Prof. Bernardo Colombo, stimavano allora – due anni prima dell’approvazione della 194 – il numero degli aborti clandestini fra centomila e duecentomila, con qualche decina di morti all’anno. Un numero neppure paragonabile alle cifre allarmistiche sparate dalla propaganda radicale (milioni di aborti clandestini, migliaia di morti all’anno, incompatibili con i numeri della popolazione femminile italiana), ma non certo trascurabile, indice di una mentalità abortiva già diffusa. Anche testimonianze come quella di Flora Gualdani, fondatrice di uno dei primi punti di accoglienza italiani di donne con maternità difficili, confermano il fenomeno. Attualmente il ricorso all’aborto in Italia è maggiore nelle regioni guidate da amministrazioni di sinistra, e il dato non è correlato alla presenza o meno degli obiettori di coscienza. Gli aborti vanno diminuendo fra le donne italiane, mentre sono in aumento fra le straniere. Il ricorso all’aborto in Italia rimane comunque sempre basso, se paragonato a quanto avviene negli altri paesi occidentali. La diminuzione degli aborti in Italia non dipende quindi dal “buon funzionamento” della 194: se così fosse, si sarebbe registrato lo stesso andamento anche negli altri paesi in cui l’aborto è legale.
Un altro dato importante è quello della contraccezione, che nel nostro Paese è al minimo rispetto al resto d’Europa: in Italia solo il 20% delle donne ricorre ai contraccettivi orali, ed il metodo più utilizzato dalle coppie italiane è il coito interrotto. Eppure la forte denatalità dimostra che gli italiani riescono a controllare le nascite efficacemente.
Minimo di natalità, di contraccezione e di aborti: questa l’anomalìa tutta italiana, a indicare che non può essere una politica di diffusione massiccia della contraccezione a contrastare gli aborti. I dati europei, d’altra parte, dimostrano che proprio laddove tale politica è stata seguita, gli aborti sono fortemente aumentati (Gran Bretagna) o comunque non riescono a calare (Francia).
L’anomalìa italiana è la tenuta della famiglia: nonostante tutto, in Europa siamo il Paese con il più basso numero di divorzi, dove i matrimoni durano più a lungo, e dove le convivenze, pur in aumento, nella stragrande maggioranza dei casi sono finalizzate al matrimonio. Nel nostro Paese c’è ancora una diffusa mentalità cristiana, che porta comunque ad una responsabilità nei rapporti reciproci che ha parzialmente arginato la mentalità abortiva, per cui un figlio inatteso, alla fin fine, non diventa un problema insormontabile.
Un’anomalìa che se da un lato non ci deve far cullare sugli allori – 127.000 aborti in un anno sono 127.000 aborti di troppo – dall’altro ci indica qual è la strada per raggiungere l’obiettivo – ambiziosissimo e a lungo termine, ma non impossibile – di Paese ad aborti zero.
Sull’aborto è giusto parlare di emergenza informativa
DAL VUOTO DI INDAGINE STORICA
ALLA DISINFORMAZIONE DI MASSA
di Nicoletta Tiliacos
Parlare di disinformazione e aborto significa, a mio avviso, prendere atto dell’immenso vuoto di indagine storica che riguarda la pratica dell’aborto prima della legge che lo ha reso legale. Un vuoto che interessa l’Italia, ma non solo. L’aborto, prima della legge e prima di tutto, è stato fenomeno diffuso e storia (non-storia) antica come il mondo. Sommerso e nascosto per definizione. Nominato, spesso con vergogna, sempre con timore, solo nella comunicazione privatissima tra donne.
Quella storia ancora tutta da scrivere – una storia antichissima, se pensiamo che dell’aborto si fa menzione nel più antico documento conosciuto della medicina occidentale, e cioè il giuramento di Ippocrate – pesa come un’ipoteca ingombrante, quando cerchiamo di andare a fondo dell’analisi del fenomeno e delle sue motivazioni, e soprattutto quando cerchiamo i modi più efficaci per combatterlo.
Basti pensare (tanto poteva la congiura del silenzio) che “Alle soglie della vita”, il film di Ingmar Bergman che vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1958, non fu mai distribuito in Italia, probabilmente perché vi si raccontava la vicenda di una donna finita in ospedale dopo un tentato aborto. Piaccia o no, è stato il movimento delle donne, negli anni Sessanta e Settanta, a rendere pubblica la questione, e forse sono proprio le circostanze “politiche” con cui è avvenuta la rottura di un silenzio millenario ad aver influito su tutto quello che è avvenuto dopo.
Esiste poi un’emergenza informativa che ha direttamente a che vedere con l’attuazione della legge 194. Una carenza non sanata dai pur puntuali rapporti dell’Istituto superiore di sanità, i quali forniscono la base per le relazioni ministeriali che con cadenza annuale fotografano i numeri dell’aborto in Italia. Mancano da sempre, per esempio, le risposte a domande come queste: quante diagnosi prenatali che portano ad interrompere la gravidanza si rivelano poi sbagliate? Quanti bimbi abortiti nascono vivi? (tutti ricordiamo il caso del bambino di Careggi, abortito alla 23° settimana di gravidanza e sopravvissuto per sei giorni). Quanti colloqui si svolgono nei consultori e quanti sono i certificati per l’aborto rilasciati? Vale a dire: quali sono i consultori nei quali ci si pone davvero il problema di prospettare alternative alla donna che chiede l’aborto?
Non sono domande che possano ancora essere eluse, a trent’anni dall’approvazione della legge.
Di un’altra emergenza informativa si può parlare nel caso dei cosiddetti “aborti terapeutici”, ovvero quelli chiesti dopo una diagnosi prenatale che individua futuri problemi nel nascituro. E’ proprio di questi giorni l’importante appello per un “accesso consapevole alla diagnosi genetica prenatale” firmato da neonatologi, psichiatri, bioeticisti e presidenti di associazioni di disabili. In quell’appello, si dice che troppo spesso la diagnosi genetica prenatale viene proposta/imposta in modo routinario, e troppo spesso la donna viene lasciata sola a decidere, con una diagnosi di malattia del figlio in arrivo, che cosa fare di lui. Mentre negli Stati Uniti e in Australia, dove la pratica prevede una piena informazione attraverso il colloquio con lo specialista della malattia diagnosticata e l’analisi concreta delle prospettive terapeutiche, si è visto che crolla il ricorso all’aborto motivato da future disabilità del nascituro. Non si può parlare di libertà di scelta e contemporaneamente accettare che la decisione sulla gravidanza sia gravata da un uso routinario (dunque una ‘non scelta’) della diagnosi genetica prenatale, “che spesso proviene da una pressione sociale per non far mettere al mondo figli con anomalie genetiche” (cito dall’appello). E’ una sconfitta di tutti, accettare che sia scontata l’eliminazione degli individui “difettosi”, che non rispondono a certi standard di qualità, come manufatti malriusciti. Soprattutto perché quei bambini sono attesi e voluti, prima che la diagnosi prenatale li declassi a indesiderabili.
A proposito di libertà vere o presunte, anche in Italia si minaccia l’introduzione dell’aborto chimico: aspetta solo l’ultima autorizzazione dell’Aifa la Ru486, la pillola dell’aborto “fai-da-te”, mifepristone più prostaglandine. Presentato come una nuova opportunità offerta alle donne, in realtà risospinge nel privato la pratica abortiva e libera soltanto medici e ospedali. Quell’idea di solitudine venduta come desiderabile privacy è una moneta di basso conio spacciata a man bassa anche da molti organi di informazione. Un’idea pericolosa soprattutto per le più giovani, che davvero possono credere alla “favola dell’aborto facile”, una pillola e via.
E ancora a proposito di libertà delle donne e informazione, va sbugiardata quella retorica burocratica dei “diritti riproduttivi”, nella quale è maestra proprio l’Onu che nega il diritto alla maternità in tante parti del mondo e chiude gli occhi di fronte agli aborti selettivi delle bambine in Asia. I mezzi contraccettivi, la sterilizzazione e l’aborto sono spesso le uniche risposte che vengono date alle donne dei paesi terzi, le quali hanno invece bisogno di istruzione e di pari diritti. Si pensi al caso dell’Iran, dove l’ampio ricorso a politiche di pianificazione familiare – dunque alla contraccezione di massa per le donne – convive con uno dei sistemi di oppressione più illiberali nei confronti delle donne stesse.
Dalla riflessione giuridica emerge la fisionomia di un dovere-diritto
OBIEZIONE DI COSCIENZA IN SANITA’
QUATTRO PILASTRI PER ORIENTARSI
di Marina Casini
In molte scelte concrete del medico, e più in generale dell’operatore sanitario – categoria che comprende anche il farmacista – è coinvolta la cosiddetta “questione antropologica” con tutte le asprezze e complessità di un confronto che è epocale e planetario anche quando si nasconde nella necessità di adottare una singola scelta, in un particolare punto del tempo e dello spazio. E’, perciò, molto importante scoprire l’autentico significato dell’obiezione di coscienza in ambito sanitario.
Dal punto di vista giuridico l’obiezione di coscienza può definirsi il rifiuto riconosciuto dalla legge di porre in essere un comportamento imposto da una norma formalmente legittima dello Stato di cui il soggetto è cittadino e all’osservanza della quale egli è tenuto.
L’esistenza di una seconda norma che consente la “disapplicazione” della prima, si spiega con il fatto che l’obiezione di coscienza non ha solo un fondamento soggettivo, ma anche un fondamento oggettivo. Infatti, nella prevalenza delle situazioni l’ordinamento giuridico ignora l’opinione del singolo che è tenuto a osservare la legge anche quando la ritiene ingiusta.
Tale “sudditanza” rispetto alle leggi (principio di legalità) si deve all’esigenza da parte dell’ordinamento di assicurare una convivenza ordinata chiedendo a ciascuno di contribuire al raggiungimento di questo risultato attraverso l’ossequio delle norme (principio di solidarietà). E’, allora, evidente che il riconoscimento del diritto a sollevare obiezione di coscienza non può essere interpretato soltanto come espressione della libertà individuale – e dunque di un diritto soggettivo (aspetto soggettivo: principio di autonomia) – ma suppone qualcosa di strettamente collegato con la ragione stessa dell’ordinamento giuridico. Diversamente, si potrebbe correre il rischio di vanificare la stessa architettura che regge lo Stato e di svuotare il principio di legalità. Il diritto all’obiezione è, allora, comprensibile fino in fondo solo se si scopre un legame con la ragione stessa dell’ordinamento giuridico (aspetto oggettivo: principio di rilevanza). Questo nella modernità – come risulta dalle moderne carte dei diritti umani, ormai richiamate da quasi tutte le Costituzioni statali di recente emanazione – consiste nella tutela e promozione della dignità umana di tutti e di ciascuno. La prima manifestazione della dignità umana è il valore dell’esistenza e, in termini giuridici, questo significa diritto alla vita. Ora la difesa della vita umana è esattamente la ragione per cui sussistono gli Stati con i loro ordinamenti giuridici.
Ecco, dunque, quali sono le coordinate strutturali dell’obiezione di coscienza: 1) l’obbligo di tenere un determinato comportamento; 2) l’esistenza di un bene fondamentale, la vita umana, che viene distrutto (sicuramente o eventualmente) dal comportamento giuridicamente obbligatorio; 3) un rapporto di concorso causale tra il comportamento che l’obiettore rifiuta di realizzare e l’evento-morte (sicuro o eventuale) di un essere umano; 4) l’esonero dall’obbligo di tenere quel comportamento obbligatorio per effetto dell’obiezione.
E’ questo il senso reale dell’art. 9 della legge 194 del 1978 sull’aborto (che può applicarsi anche al farmacista per quanto riguarda la vendita della “pillola del giorno dopo”) e dell’art. 16 della legge 40 del 2004 sulla procreazione artificiale. Quest’ultima, infatti, pur basandosi sul principio di “destinazione alla nascita” può esporre gli esseri umani concepiti in vitro a rischio eventuale di morte. Inoltre, l’obiettore può voler tutelare anche altri beni che la “procreazione assistita” lede (la dignità dell’atto procreativo) o può ledere (la famiglia fondata sul matrimonio).
Non va dimenticato che la coscienza del medico ha rilevanza anche nel Codice di deontologia medica che all’art. 22 prevede l’ autonomia e responsabilità diagnostica e terapeutica e che il Comitato nazionale per la Bioetica ha riconosciuto il diritto del medico di sollevare “clausola di coscienza” rispetto alla richiesta della cosiddetta “contraccezione d’emergenza”.
Quando la legge si allontana dalle ragioni profonde e strutturali che reggono i moderni ordinamenti giuridici – il riconoscimento dei diritti umani fondamentali a partire dal diritto alla vita, prima espressione della dignità umana – allora non solo è doveroso per l’operatore sanitario sollevare obiezione di coscienza, ma deve riconoscersi un vero e proprio diritto all’obiezione di coscienza, non solo come diritto di libertà individuale, ma anche come indicazione di un valore collettivo. L’obiettore “vero” è dunque colui che indica una via alternativa da seguire e si impegna con coraggio per costruire una società più giusta.
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Per approfondire:
M.L Di Pietro, C. Casini, M. Casini, Obiezione di coscienza in sanità. Nuove problematiche per l’etica e per il diritto, Cantagalli Siena, 2005;
L. Romano, M.L. Di Pietro, M. Faggioni, M. Casini, Dall’aborto chimico alla contraccezione di emergenza. Riflessioni biomediche, etiche e giuridiche, Edizioni ART, Roma 2008;
M. L. Di Pietro, M. Pennacchini, M. Casini, Evoluzione storica dell’Istituto dell’obiezione di coscienza in Italia, in Medicina e Morale, 2001, 6, pp. 1093 – 1151;
C. CASINI, Parere su. Norlevo. L’obiezione di coscienza dei farmacisti, in Medicina e Morale, 2001, 5, pp. 973 – 987
M.L. Di Pietro, M. Casini, R. Minacori, L. Romano, A. Fiori e A. Bompiani, Norlevo e obiezione di coscienza, Medicina e Morale, 2003, 3, pp. 411 – 455.
C. Casini, M. L. Di Pietro, M. Casini, Testamento biologico e obiezione di coscienza, in Medicina e Morale, 2007, 3, pp. 473 – 490
Si moltiplicano i dubbi, anche scientifici, sulla pasticca post-coitale
PILLOLA DEL GIORNO DOPO, L’EFFICACIA
E’ VICINA ALLA SOGLIA DELLA “FUTILITA’ MEDICA”
di Renzo Puccetti
La questione della cosiddetta “contraccezione d’emergenza” rappresenta un esempio evidente di quella interdisciplinarità che è patrimonio riconosciuto e condiviso della riflessione bioetica. La tematica della pillola post-coitale vede afferire il contributo di varie discipline della medicina, al pari del diritto, dell’etica, dell’antropologia, della pedagogia, come della teologia morale. Al fine della valutazione dell’oggetto morale dell’assumere o prescrivere la pillola del giorno dopo, non si può eludere la questione del meccanismo d’azione del farmaco.
Tutti i percorsi offrono un panorama di risultanze contrastanti, ambigue, che non consentono di poter pronunciare una parola definitiva, per quanto nel campo della scienza medica ciò difficilmente sia raggiungibile. Il principio di precauzione è pertanto in questo caso pienamente giustificato. Negare il problema del meccanismo d’azione della pillola post-coitale significa quindi compiere in prima istanza un pessimo lavoro d’informazione scientifica. Si tratta di un punto che non interessa solamente i medici, ma che, anche sulla base della letteratura scientifica, risulta determinante per la maggioranza delle donne stesse le quali, se non avvertite del potenziale meccanismo d’azione post-fertilizzativo del farmaco, rischiano di assumere un prodotto che contrasta con i propri valori.
Altra questione, peraltro intimamente connessa con la precedente, è quella che si riferisce all’efficacia del farmaco nel ridurre le gravidanze indesiderate e gli aborti. Il levonorgestrel è attualmente commercializzato senza che sia mai stato prodotto uno studio controllato con placebo. La reale efficacia del farmaco quindi si basa sul confronto con donne sane, che cercavano una gravidanza, studiate nel periodo 1982-85, quando l’infertilità di coppia era un problema assai meno diffuso.
Gli studi più recenti indicano che il tasso di efficacia è in termini assoluti del 2-3%. Se a questo dato si aggiunge che oltre un terzo delle donne che si presentano per ottenere la pillola del giorno dopo non presentano spermatozoi in vagina, ne deriva che l’efficacia del farmaco si avvicina pericolosamente a quella soglia al di sotto della quale gli autori collocano la “medical futility”.
Non vi sono inoltre prove che la distribuzione del farmaco come prodotto da banco porti ad una maggiore assunzione dello stesso; a livello di popolazione la sua diffusione non riduce le gravidanze indesiderate, tanto meno il ricorso all’aborto. Anzi, vi sono alcuni indicatori che mostrano un incremento della propensione ad abortire nelle donne che ricorrono alla pillola del giorno dopo, qualora si accerti clinicamente la gravidanza.
Benché la Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici abbia riconosciuto, sulla scorta del documento del 2004 del Comitato Nazionale di Bioetica votato all’unanimità, la clausola di coscienza come assimilabile all’obiezione di coscienza prevista in diversi dispositivi legislativi, non possiamo concordare col tentativo di fare del medico obiettore una figura comunque obbligata ad indirizzare la donna ad un collega prescrittore del farmaco. Come fa notare Edmund Pellegrino, presidente del Consiglio di Bioetica del Presidente degli Stati Uniti, al medico non può essere richiesto di cooperare ad un’azione contraria ai suoi più profondi convincimenti. Dal momento che lo Stato riconosce la possibilità dell’obiezione di coscienza, esso non può poi pretendere dal medico che il ruolo di dipendente del sistema sanitario pubblico soffochi quello di persona, che anche nell’obiezione di coscienza esprime i propri diritti umani fondamentali. Laddove non l’organizzazione dei servizi sanitari, ma il medico obiettore fosse obbligato in qualunque modo a partecipare agli atti idonei e necessari per l’approvvigionamento della donna della pillola del giorno dopo, si realizzerebbe quel paradosso di Böckenförde secondo cui lo Stato secolarizzato vive di presupposti che non può mantenere.
La lettera di Carlo Casini (Mpv) a “Scienza & Vita”
INSIEME PER RICONOSCERE AD OGNI ESSERE UMANO
LA CAPACITA’ GIURIDICA FIN DAL CONCEPIMENTO
di Carlo Casini
Roma, 23 maggio 2008
Alla cortese attenzione:
Prof.ssa MARIA LUISA DI PIETRO
Presidente Associazione SCIENZA E VITA
Cara Presidente,
come già ti ho già telefonicamente detto, non posso essere presente all’incontro organizzato da “Scienza e vita” a causa di precedenti impegni ai quali non sono riuscito a sottrarmi. Puoi immaginare quanto ne sono dispiaciuto, dato il tema, che viene trattato proprio allo scadere del trentennio dall’entrata in vigore della legge 194. Cerco allora di essere presente con un pensiero ridotto all’essenziale.
Ripeteva Madre Teresa di Calcutta: “L’aborto è il principio che mette in pericolo la pace nel mondo”. Ha scritto Giovanni Paolo II (E.V.) che tutta la dottrina dei diritti umani “giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze” se l’uomo non è riconosciuto come tale nelle aree più emblematiche della sua esistenza “quali sono il nascere e il morire”.
Ha ricordato pochi giorni fa Benedetto XVI al Movimento perla vita che la legge 194 è una ferita profonda di fronte alla quale non è ammessa la rassegnazione.
Noi dobbiamo fare tutto il possibile per guarire questa ferita. La medicina essenziale è una sola: riconoscere che l’uomo è sempre uomo fin dal concepimento. Tutto il resto è secondario o conseguenza. Non c’è altra terapia che questa. Come l’aborto legale riconosciuto come espressione di un diritto di libertà è la madre di tutte le discriminazioni e quindi di ogni deriva eugenetica, così l’uguale dignità umana riconosciuta dal diritto al più povero e debole tra gli esseri umani che chiamiamo “embrione” è la prima pietra di un mondo nuovo e la pietra di paragone che distingue il vero dal falso umanesimo. Ed è anche una medicina potente ai cui benefici effetti non si può resistere, perché tocca le corde profonde della modernità. Non possiamo attardarci troppo in repliche di dettaglio alle aggressioni contro la vita umana.
Certo, non possiamo rassegnarci di fronte alla legge 194. Non possiamo tranquillizzarci dicendo che “va meglio completamente applicata”: una legge ingiusta anche se meglio applicata resta ingiusta. Ma neppure possiamo sentirci tranquilli se ci limitiamo a gridare che la legge è ingiusta senza cambiare niente. Non dobbiamo essere né timidi, né velleitari. Scienza e Vita ha il compito preciso di introdurre con il rigore della ragione l’uomo, appena compare all’esistenza nel mondo del diritto – che è quello della razionalità collettiva – come soggetto, cioè come un uguale in dignità ad ogni altro essere umano e un diverso da qualsiasi oggetto. Abbiamo già adombrato questo obiettivo nell’art. 1 della legge 40, ma dobbiamo estenderlo all’intero ordinamento, rilanciando la proposta popolare di modifica dell’art. 1 c.c. per riconoscere ad ogni essere umano la capacità giuridica fin dal concepimento. La prima conseguenza non è la sanzione penale per l’aborto volontario, ma la ristrutturazione dell’atteggiamento dello Stato riguardo alla gravidanza non desiderata. Non l’offerta di una garanzia per la libera scelta della madre, ma il rafforzamento razionale del coraggio dell’accoglienza e la restituzione della vera libertà, quella di non abortire. Perciò il Movimento per la vita è convinto che occorre una grande riforma dei consultori familiari, per “bonificare” la prima parte della legge 194 eliminandone le equivocità.
Può darsi che dal punto di vista legislativo oggi non sia possibile fare di più. Ma queste due riforme, pur difficili, sono possibili e dunque è doveroso il tentativo di realizzarle. Sono certo che l’unità ideale e strategica di tutte le nostre forse possa ottenere il risultato.
Buon lavoro a tutti,
Carlo Casini