La serata all’Auditorium di Roma e poi in video, grazie a Sat2000
“LIEVE, TENACE E’ LA VITA”
CON ELUANA E PER TUTTI NOI
di Domenico Delle Foglie
“Lieve, tenace è la vita”: questo è il tema della serata teatrale organizzata dall’Associazione Scienza & Vita, che si è avvalsa del sostegno produttivo di Sat2000. La manifestazione si è tenuta ieri sera a Roma presso l’Auditorium Parco della musica (Sala Teatro Studio).
Si è trattato di un momento di altissima riflessione sulla vicenda umana nel momento di massima fragilità, come è nel caso di Eluana Englaro e di tutte le persone che come lei vivono in condizione di stato vegetativo persistente. Di grande impatto emotivo il monologo scritto dal poeta Davide Rondoni che, attraverso la voce inconfondibile di Luca Ward, ha dato ragione della speranza e delle trepidazioni di chi si imbatte in un essere umano fragile.
Ad arricchire la serata, anche le voci liriche di un affascinante quartetto vocale femminile. Innestate nella narrazione drammaturgica, inoltre, le vivide testimonianze di Gianluigi Gigli, Marco Maltoni, Vittorina Zagonel e Fulvio De Nigris. Da tutti loro l’eloquente esperienza di chi, a diverso titolo, vive a contatto diretto con persone così bisognose di sostegno. Di straordinario spessore anche la testimonianza dal vivo di Mario Melazzini che non ha fatto mancare la sua voce in favore della vita. Un momento, il suo, di altissimo impatto emotivo.
L’intera manifestazione, registrata da Sat2000, viene mandata in onda questa sera, martedì 23 dicembre, alle ore 21.40 e in replica nella mattinata di domani, mercoledì 24, alle ore 9.05.
Pensiamo di fare cosa gradita a tutti voi, mettendovi a disposizione il testo integrale del monologo di Davide Rondoni che ha fatto da base per la trasposizione drammaturgica.
Scarica il monologo scritto da Davide Rondoni: "Passare la mano. Delicatamente"
Nel rispetto del dramma della famiglia, non possiamo tacere
ELUANA HA BISOGNO DI TUTTO
COME BIMBA NEL GREMBO DI MADRE
di Salvatore Mancuso
Certo Eluana deve aver parlato a lungo col padre e in tempi non sospetti, per convincerlo a richiedere, e non solo con insistenza, ma con ostinazione e senza mai desistere, di rispettarne la volontà, fino ad ottenere di porre fine ad una vita non più recuperabile sul piano della comunicabilità e delle manifestazioni della coscienza. Perché di questo si tratta. Eluana in condizioni di benessere psicofisico si prefigurava lo stato in cui si trova oggi: assenza di coscienza e abolizione di ogni forma di espressione del pensiero, condizione di vita per lei non più accettabile e quindi da spegnere; in altre parole, tale da chiedere che sia lasciata morire.
Io che sono padre e vivo per i miei figli, cerco di assumere e recepire le motivazioni del padre di Eluana che, pur nell’angoscia, supera i freni che gl’impone l’amore paterno e tenacemente chiede di rispettare la volontà della figlia, che aveva dichiarato di non voler vivere in questo stato definito “vegetativo”. Questa trasposizione però mi risulta difficile, perché oltre che padre sono anche medico e medico delle donne, che con le donne ha condiviso i problemi di salute, di stress, di conquista di un ruolo sociale, tra mille ostilità e impedimenti. Ma soprattutto sono medico delle nascite, di chi deve venire al mondo. Nascere vuol dire: realizzare una condizione di vita che si traduce con l’avvio di una respirazione polmonare e non più placentare, di una autonomia alimentare e non più attraverso il cordone ombelicale, di indipendenza immunitaria dalle aggressioni esterne e non più in dipendenza dei meccanismi di difesa materni a favore della fragilità del concepito, ma principalmente nascere vuol dire realizzare la capacità di trasmettere a tutti il proprio pensiero con atteggiamenti, comportamenti e linguaggio comuni e vicendevoli. In una parola nascere significa potere iniziare a relazionarsi con i propri simili, con la collettività e non più unicamente con l’organismo materno.
Infatti, fino ad un attimo prima di nascere, il mondo di relazione del feto è costituito dall’involucro uterino e le sue esigenze vitali sono espresse attraverso strumenti di comunicazione primordiali ma estremamente efficienti, dato che si manifestano con una moltitudine di sostanze chimiche elaborate dal nascituro e ben recepite ed interpretate dalla madre. Lei raccoglie ed esamina le richieste dei figli così espresse e si dispone ad elargire quanto da loro richiesto in termini di nutrienti, gas respiratori ed ogni sorta di aiuto e supporto alla vita che matura e che nasce. Questo mondo di relazione primordiale ed interpersonale, questa simbiosi che comprende anche il rapporto psichico tra i due e che ci è ancora largamente sconosciuto, è uno dei misteri più affascinanti dell’esistenza di noi tutti. A nessun altro se non alla madre è dato di conoscerlo; uno dei doni soprannaturali che la donna ha ricevuto dal Creatore, insieme alla capacità di custodire per tutta la sua esistenza le cellule che il figlio le ha trasmesso durante la gravidanza, cellule che contengono i caratteri genetici non solo del figlio stesso ma anche del padre che lo ha generato: straordinario modello di Trinità!
Non possiamo fare altro che rimanere attoniti di fronte a questo mistero della nostra esistenza e nessuno, tanto meno la più alta autorità che tutela i diritti umani, può permettersi di pronunciare una sentenza che interrompe arbitrariamente questa sconosciuta condizione di vita e questo misterioso, interiore mondo di relazione. Questo vale per la vita che nasce ma vale anche per la vita che si spegne.
Un punto, sintetico, sullo stato delle conoscenze mediche
STATI VEGETATIVI PERSISTENTI
SI’ ALLA RICERCA, NO AGLI ABBANDONI
di Massimo Gandolfini
La sindrome clinica che connota quello che oggi chiamiamo "Stato Vegetativo Persistente" (SVP) venne descritta dettagliatamente, per la prima volta, da Ernst Kretschmer nel 1940 (infatti, per lungo tempo, si parlò di Sindrome di Kretschmer), che le attribuì la denominazione "sindrome apallica", volendo sottolineare l’elemento caratteristico della grave compromissione della corteccia cerebrale ("pallium").
La dizione propria di Stato Vegetativo Persistente si deve al neurochirurgo scozzese Bryan Jennet ed al neurologo americano Fred Plum, nel 1972.
Lo Stato Vegetativo (SV), che può essere l’evoluzione di un coma da insulto cerebrale traumatico e/o vascolare (va precisato che recenti acquisizioni ci dicono che anche un Alzheimer o un Parkinson avanzati possono esitare in uno SV) è una condizione patologica caratterizzata da perdita del contenuto di coscienza, mantenimento dello stato di vigilanza e del ritmo sonno/veglia (in grado variabile), conservazione della funzionalità del tronco cerebrale (ritmo cardiorespiratorio, temperatura corporea, reazioni vegetative, ecc…). Lo SV può essere temporaneo (il limite viene posto a 30 giorni) e dar luogo ad un "risveglio" con recupero neuro-cognitivo variabile. Quando, invece, si superi detto intervallo di 30 gg., configurandosi la sindrome clinica descritta, si entra nel cosiddetto SVP. Va precisato che nel 1996 il Royal College of Phyisicians propose una distinzione in tre forme: SV, SV Continuo, SV Permanente, ma la comunità scientifica mondiale preferì adottare una terminologia meno "rigida" in ordine alla irreversibilità clinica, coniando il termine "persistente". Ad oggi, i casi limitatissimi ma inequivocabilmente presenti, di "risveglio" anche dopo anni suffragano la scelta di tale denominazione.
Le più comuni basi anatomopatologiche dello SVP, ovviamente con estensione variabile, sono la necrosi talamica bilaterale, la necrosi laminare corticale e il danno assonale diffuso. Su tali basi, una parte della scuola francese propose il termine di "morte neocorticale". Oggi più che mai possiamo rigettare questa denominazione: gli studi con RMN-funzionale e tecniche di neurostimolazione dimostrano la presenza di aree corticali attive e funzionanti.
Lo SVP va distinto dal cosidetto Stato di Minima Coscienza (SMC), che l’ American Academy of Neurology nel 2002 ha definito con le seguenti caratteristiche cliniche (sempre con variabilità quantitative da caso a caso): limitata ma evidente consapevolezza di sè e dell’ambiente, risposta a comandi semplici, risposte verbali o posturali si/no, comportamenti volontari a stimoli ambientali. In realtà la diagnosi differenziale fra SVP e SMC non è così semplice come si potrebbe pensare, se uno studio del 2005 stima un errore diagnostico del 30-40%. Lo SMC può durare pochi giorni o pochi mesi, può anche avere un andamento intermittente, con lunghi periodi di regresso clinico, ed è statisticamente caratterizzato da una prognosi favorevole circa il recupero neurocognitivo. Comunque, qualora persista per più di 12 mesi, il recupero non va oltre il livello di "grave disabilità" codificato dalla GOS (Glosgow Outcome Scale).
Oggi più che mai viene dibattuto un punto nodale dello SVP, anche per le ricadute bioetiche che esso comporta: la reversibilità. Assunta la considerazione della non sempre facile diagnosi differenziale fra SVP e SMC, se uno SVP dura meno di un anno ci sono statisticamente 60% di probabilità di un qualche recupero dello stato di coscienza in età pediatrica, e 50% in età adulta. I dati "crollano", ma non si azzerano, quando lo SV persista oltre i due anni.
Le basi neuroanatomiche del possibile "risveglio" sono da ricercarsi nella cosidetta "neuroplasticità": sotto la spinta di "growth factors" (fattori di crescita) si possono riparare reti neuronali danneggiate, con scomparsa dell’anisotropia post-lesionale. I vari tentativi terapeutici (farmacologici, cognitivi, di neurostimolazione centrale e periferica) mirano ad attivare (o riparare) network neuronali talamo-corticali e reticolo-corticali che stanno alla base del recupero della coscienza.
Questo campo di ricerca è ancora bisognoso di grandi sforzi e di grandi studi. E’, pertanto, doveroso essere rigorosi, prudenti e critici nell’esprimere sia facili condanne di irreversibilità, sia inappropriate illusioni di recupero: a mio avviso, noi studiosi abbiamo la gravosa responsabilità di poter provocare quel "male sociale" fatto di sogni, poi traditi, o di disperazioni, poi smentite dai fatti, che non giova né alla società né alla scienza. Con altrettanta determinazione va detto che non possiamo imboccare facili scorciatoie che evocano immagini di "vite inutili e infraumane", che solo la pratica eutanasica può "risolvere". Al contrario, tutta la storia della medicina e della ricerca biomedica ci insegna che di fronte a compiti difficili (spesso ritenuti impossibili) si devono moltiplicare ingegno, intuito, passione, studio e… cuore! Se la ricerca sullo SVP non deve e non può essere abbandonata, a maggior ragione il paziente in SVP non può e non deve essere abbandonato.
L’Associazione con un suo documento al convegno della FnomCeo
“ETICA E DEONTOLOGIA DI INIZIO VITA”
CONTRIBUTO E RISERVE DI SCIENZA & VITA
di Lucio Romano
Richiamare gli scopi, le modalità operative ed i contenuti che hanno caratterizzato la redazione del documento dell’Associazione Scienza & Vita (S&V) su “Etica e deontologia di inizio vita”, necessita di una breve cronistoria.
La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri (FnomCeo) ha organizzato a Ferrara, il 25 ottobre scorso, un convegno su “Etica e deontologia di inizio vita”, con l’obiettivo di “comporre le diversità attorno ad un progetto sanitario condiviso e cogliere ogni proficua opportunità, ogni occasione di confronto e di dibattito, nell’esercizio responsabile dei nostri ruoli e alla luce dei valori di beneficialità, di giustizia e di rispetto dell’autonomia del cittadino, in quanto da tempo è aperto e non concluso un serrato confronto su delicate tematiche bioetiche che coinvolge le componenti culturali, religiose e civili della società che ovviamente si riverbera sulle funzioni e sulle scelte del nostro esercizio professionale”.
Un’esigenza, pertanto, avvertita dalla classe medica di confronto e di costruzione di percorsi dialettici ed operativi su tematiche di particolare attualità: contraccezione di emergenza, diagnosi genetica preimpianto, Legge 194/78, aborto chimico con Ru486 e misoprostolo, assistenza ai neonati in età gestazionale estremamente bassa.
Per tale motivo la FnomCeo ha convocato istituzioni, società scientifiche e associazioni di riferimento, rappresentanti di varie confessioni religiose per alcune audizioni preliminari allo scopo di favorire “un primo momento di confronto e agevolare il comune approfondimento”.
S&V, ben volentieri, ha accettato l’invito a partecipare, nella consapevolezza di poter offrire un contributo argomentato secondo rigorosi criteri scientifici e antropologici, oltre che giuridico-deontologici, al fine di “tutelare e promuovere la vita garantendo il rispetto dei diritti di ogni essere umano”. Infatti, ”solo una scienza al servizio di ogni essere umano è al sicuro da qualsiasi tentazione di onnipotenza. Solo l’alleanza tra scienza e vita offre il fondamento stabile e oggettivo per una società capace di porre al proprio centro – anche nel futuro – la dignità intrinseca ad ogni essere umano in tutte le fasi della sua esistenza, e in particolare quand’è più vulnerabile: all’inizio e alla fine del ciclo vitale, come anche nella malattia, nella debolezza e nella disabilità”. All’audizione preparatoria ha partecipato una delegazione di S&V che ha illustrato la posizione in merito ai temi in oggetto. Dibattito e confronto certamente serrato e stimolante, con posizioni anche confliggenti sotto il profilo culturale e assistenziale, che tuttavia non ha impedito a S&V di evidenziare la non condivisione del documento proposto dalla FnomCeo, sulla base di criticità rilevate e la mancata sintonia con lo statuto ontologico del medico. La presidenza di S&V ha costituito un gruppo di studio – composto da docenti, ricercatori e studiosi nelle varie discipline afferenti (bioetica, genetica, medicina legale, ginecologia e ostetricia, neonatologia) – che ha redatto il documento presentato al convegno di Ferrara. La modalità operativa seguita da S&V nella redazione del documento è stata evidentemente di tipo interdisciplinare con una specifica attenzione – come richiesto – per le argomentazioni giuridico-deontologiche e con ampia e rigorosa analisi della bibliografia scientifica, validata e riconosciuta. Da questo studio, dal confronto, dal contributo di vari esperti, dalla lettura non ideologica delle fonti, dal riconoscimento del valore irriducibile dell’alleanza terapeutica fondata nella relazione di cura, è stato redatto il documento offerto come contributo alla FnomCeo.
Roma, fermato il Municipio X, grazie alle Acli e Scienza & Vita Roma 1
STOP AL REGISTRO DEI TESTAMENTI BIOLOGICI
ECCO UNA PAGINA DI “BUONA POLITICA”
di Gianluigi De Palo
La battaglia per l’affermazione della dignità della vita umana si combatte su più fronti: quello delle idee, quello della politica europea e nazionale e quello della politica locale. In quest’ultimo ambito si deve considerare di enorme importanza il risultato ottenuto nel pomeriggio del 15 dicembre nel Municipio X, Tuscolano – Cinecittà, del Comune di Roma.
La discussione in aula consiliare è stata accesa, e nonostante gli intenti delle componenti di estrema sinistra, l’assemblea non ha riscontrato i requisiti minimi per la votazione della mozione, al punto che inevitabile è stato il ritiro della stessa. Niente registro, dunque.
Il fatto politico risulta rilevante perché l’istituzione di un registro dei testamenti biologici nel X municipio, già noto per l’esistenza di un registro per le unioni civili, avrebbe costituito un incentivo forte per un’operazione analoga presso altre istituzioni locali, come già annunciato da alcuni giornali. Il risultato è stato ottenuto grazie ad una forte dose di buon senso da parte della politica, ma soprattutto grazie all’impegno della società civile.
Nei giorni precedenti la discussione in aula le Acli di Roma e l’Associazione Scienza & Vita Roma1 si sono mobilitate con un fitto volantinaggio nei quartieri Tuscolano e Cinecittà, gridando con forza lo slogan: “Sulla vita non si vota!”.
Le pressioni e le buone ragioni di questa campagna hanno evidentemente convinto le componenti politiche locali (in particolar modo quei consiglieri di matrice cattolica all’interno del Pd) a rimeditare una scelta, l’istituzione del registro, che poteva rappresentare un azzardo e un pericoloso balzo in avanti, proprio quando a livello nazionale ci si accinge a lavorare per costruire una legge sulla fine della vita.
Da un punto di vista politico non resta che vigilare sulla situazione, dal punto di vista operativo si deve riflettere con soddisfazione sull’importanza che le realtà associative hanno nel processo decisionale della politica. In questo senso Scienza & Vita non deve far mai mancare il proprio appoggio, innanzitutto culturale, a quanti intendono costruire la buona politica.
Recensione / Nel romanzo dello svedese Wijmark, l’eutanasia di Stato
SE IL FUTUROLOGO CI FA INTRAVEDERE
LA MORTE “SOCIALMENTE UTILE”
di Stefano Colucci
Non sempre il male veste i panni peggiori, anzi, spesso si traveste. Accade così nel romanzo di Carl Henning Wijmark, La morte moderna (1) , apparso nel 1978 (ora tradotto in Italia da Iperborea) e ambientato in Svezia, in un tempo non precisato, comunque di poco posteriore alla data di pubblicazione. La scena è quella di un composto convegno in un centro congressi sullo stretto che separa Copenaghen e Malmoe; si passano la parola uno scienziato-moderatore, un bioeticista, un teologo, un filosofo, davanti a una platea di medici ed esperti. Il tema è il nuovo programma sociale sulla fase terminale della vita umana, gestito dal Fater, comitato del Ministero degli Affari Sociali svedese.
È il moderatore, Bert Personn, a presentare il progetto e a porre la basi della discussione: in un periodo di prolungata crisi economica, come quella che nel romanzo colpisce la Svezia, è necessario attivare nuove ed efficaci misure di ingegneria sociale per alleggerire i conti pubblici.
In soldoni, è necessario liberarsi dei vecchi che hanno smesso di essere produttivi. Questa rozza conclusione viene perseguita con metodo subdolo e raffinato: piuttosto che incentivare direttamente l’eutanasia, proponendo soluzioni di morte assistita in modo patente, come avvenuto in anni precedenti senza considerevoli risultati, il moderatore propone di perseguire una strategia persuasiva nei confronti degli anziani al fine di convincerli che ad un certo punto, per il loro bene, è meglio farla finita. Lo Stato non si occuperebbe di pianificare la morte dei propri cittadini, sostiene Personn, ma ne regolerebbe in un certo qual modo la voglia di vivere. In uno stato di indigenza e di scarsa qualità della vita l’anziano, persuaso della sua inutilità sociale, finirebbe per desiderare la morte. Sarebbe una morte socialmente utile, una morte moderna.
L’intervento del bioeticista introduce il tema del valore sociale dell’individuo. Una minuziosa casistica di confronti tra individui in stato di emergenza porta alla conclusione che la vita di un premio Nobel conta di più di quella di un comune idiota. Conclusione raccapricciante soprattutto per la sicumera con la quale l’esperto tende a stabilire scale di valori tra esseri umani. In realtà, in situazioni disperate, potrebbe essere inevitabile scegliere chi salvare, ma non per legge o secondo tabelle comparative; sarebbe solo occasionale e drammatico buon senso, come puntualizza Chesterton in Eugenetica e altri malanni.
Al tavolo dei relatori siede anche un animoso umanista che, attingendo in modo quasi disperato alla millenaria tradizione classica, giudaica e cristiana, e senza dogmi, tenta di ricordare che non è poi così banale pensare che la vita umana abbia un valore assoluto. Ma il suo sforzo appare vano, lui stesso si rende conto che è convocato lì per assistere alla sua stessa disfatta: rappresenta un’idea che tramonta. L’idea che vince è invece quella del produttivismo.
Gli stessi anziani, in vita considerati superflui, una volta morti recuperano la loro utilità sociale. Sono serbatoi di pezzi di ricambio, organi, ossa e tessuti ancora in condizioni accettabili perché di defunti sani e sotto controllo. Ancora una volta, affinché l’obbrobrio non abbia un volto inguardabile, si offre al popolo un surrogato di ciò di cui ha bisogno: nessun corpo per il funerale, nessun compianto, solo una clavicola, simbolica chiave per il paradiso, intorno alla quale inscenare una paradossale cerimonia funebre. Il corpo, intanto, ancora caldo, è già spacchettato e in via di riuso. A concepire questo beffardo rituale è un teologo, presente al convegno, spalla bieca di questo progetto di selezione della specie, manipolatore di mezze verità religiose e dispensatore di pericolosi anacronismi: lontano, comunque, da ogni sensibilità umana e cristiana.
C’è abbastanza nel romanzo per temere che questo scenario somigli un po’ troppo alla realtà dei nostri giorni. Più che ai centri della morte, Dignitas e affini, pensiamo alla mistificante campagna che quotidianamente assale l’opinione pubblica al fine di convincere le persone che la vita ad un certo punto può diventare irrimediabilmente non dignitosa. Come una merce che se non funziona va rispedita al produttore, o se guasta gettata.
Questa prospettiva cosificante è avvertita anche da Claudio Magris, che nella postfazione si allarma per il dilagare delle leggi dell’economia negli ambiti esistenziali più preziosi. Ma La morte moderna è un romanzo, obietterà qualcuno: fantasia, o meglio paura, da intellettuale futurologo catastrofista. Purtroppo il futuro fantasticato c’entra poco perché proprio in Svezia l’ingegneria sociale è stata una realtà del recente passato, fatta di aborti, castrazioni e sterilizzazioni, secondo il progetto di welfare svedese, chiamato folkhemmet. Per farsi un’idea basta leggere l’interessante saggio storico di Luca Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese. Altrettanto inquietante è il fatto che nel romanzo si citino personaggi reali, come Mogens Glistrup, politico danese sostenitore dell’abolizione di ogni forma di assistenza sociale.
Nel testo, con cinismo, si ricorda che la maggior tutela per gli anziani è data dal fatto che ancora votano, a qualsiasi età. Questa, nella realtà, non nella finzione, potrebbe essere una frontiera da sorvegliare. La società produttivistica è pericolosa, ma è abile a mascherare i propri artigli: i vecchi, sostiene Norberto Bobbio nel suo De Senectute, nelle società tradizionali ed etiche sapevano quello che gli altri avrebbero poi imparato; nel tempo accelerato della tecnica il vecchio sempre più non sa quello che gli altri stanno imparando. Wijmark ci avverte di quanto rischino i vecchi, deboli perché vicini alla morte, se a vincere è l’ingegneria sociale e l’idea di morte moderna, programmata e utilitarista. Noi ricordiamo che a rischiare è anche il malato, il bambino che deve nascere, il povero: forse siamo noi tutti a rischiare.
1) Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna, Iperborea, 2008, pp. 119, postfazione di Claudio Magris